UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL PRIMO PENSIERO ANTIRIVOLUZIONARIO NELLA PENISOLA ITALIANA (III)
In tempi di pericolo è egli cosa buona di non esser solo, né di comparir isolato avanti agli occhi del mondo, acciocché l’idea della potenza sia rialzata, e diventi più risplendente per l’assenso libero, e spontaneo degl’immediati Vassalli, ed il complesso dei fedeli sudditi del paese sappia a chi unirsi, ed ove sia la vera patria.
Ma circondatevi di amici non di nemici, di quelli che desiderano la Vostra conservazione, e non di quei che vogliono la Vostra rovina, di veri Stati del paese, ossiano gli Stati provinciali, come la natura li creò, e non di rivoluzionarj aritmeticamente secondo il numero delle teste calcolati e così detti Rappresentanti del popolo, siccome quelli che già si fondano sul giacobinesco principio della dissoluzione d’ogni privata relazione sociale, e che solamente debbono aprire il varco ad ulteriori rovesci. Date ascolto a brame ragionevoli, ma sostenete contro quegli Stati provinciali stessi sempre l’autorità suprema. Fuggite la parola Costituzione; ella è un veleno nelle Monarchie, perciocché presuppone una base democratica, organizza la guerra intestina, e crea due elementi lottanti a vita e morte l’un contro l’altro. Chi ha bramato queste Costituzioni? Niun altro che i Giacobini stessi, primariamente per conquistare il loro principio capitale, e tirarne più tardi le ulteriori conseguenze; in secondo luogo per innalzarsi con questo principio, a loro soli favorevole, esclusivamente al supremo potere. I popoli però non pretendono da Voi Costituzioni, ma solo protezione e giustizia”.[1]
Non possiamo dimenticare in questa carrellata di autori antirivoluzionari la figura del principe di Canosa che costituì il lustro della Napoli tradizionalista. Antonio Capece Minutolo nacque a Napoli il 5 marzo 1768 da Fabrizio, principe di Canosa e da Rosalia de Sangro dei principi di Sansevero. Le famiglie paterna e materna appartenevano alle più antiche e nobili casate del Regno di Napoli. Il ramo paterno originario, i Capece, da cui si erano ramificati successivamente altri ceppi principeschi, aveva contribuito a costruire la storia del regno. Antonio Capece Minuto di Canosa trascorse la giovinezza a Roma dove studiò filosofia e successivamente giurisprudenza al Collegio Romano dei Padri Gesuiti. La permanenza a Roma, in ambiente cattolico, lo tenne lontano da quel gioco perverso di avvelenamento intellettuale che l’illuminismo aveva praticato sui giovani rampolli dell’aristocrazia Napolitana. Anzi, la formazione cattolica ricevuta dagli insegnanti, lo spinse ad assumere posizioni chiaramente legittimiste e fortemente cattoliche. E’ già del 1795 la sua polemica contro i novatori ed in difesa della religione cattolica, consolidata più tardi con la pubblicazione di una dissertazione sulla Utilità della Monarchia nello Stato civile. Non esitò a polemizzare, sempre in questo periodo, con la politica di Ferdinando IV che consolidava l’assolutismo monarchico mantenendo in piedi, ciò nonostante, prestazioni di tipo feudale come il servizio obbligatorio per i baroni, o con l’esazione dell’adoa, la tassa che riteneva essere stata abolita. Per ricercare le origini del pensiero del principe di Canosa, bisogna risalire ai suoi maestri. Essi furono il cardinale Stefano Borgia (1731 – 1804) e l’abate Nicola Spedalieri, che abbiamo già incontrato. Entrambi ecclesiastici, erano portati alla vis polemica contro la politica del tempo. Il primo fu il campione del curialismo nella lotta anti regalista del Settecento, il secondo fu il precursore del papismo più intransigente che si svilupperà nell’Ottocento. Le linee fondamentali del pensiero canosiano sono condensate in quattro pilastri che accompagnano tutta la sua opera, dal 1795 al 1835[2]. Essi sono i seguenti: 1) La Monarchia sana non è concepibile senza una sana potestà intermedia. 2) Tra le potestà intermedie quella della nobiltà è così intimamente legata all’essenza della Regalità che si può lanciare la formula: dove non v’è monarchia, non v’è nobiltà; dove non v’è nobiltà, non v’è monarchia, ma si ha un despota. 3) Se i corpi intermedi sono le basi di una monarchia sana, chi con le sue riforme intacca le potestà intermedie, viene a minare la stessa monarchia. 4) Se l’onore è il sentimento fondamentale che regge le monarchie, la virtù, il disinteresse assoluto, la devozione cieca alla patria, è il sentimento fondamentale che regge i corpi intermedi[3]. In pieno svolgimento del Congresso di Vienna, cominciò a circolare una tesi per la quale doveva prevalere il principio dell’autodeterminazione dei popoli. La tesi era alimentata dagli inglesi ed il Canosa, il cui carattere polemista era sempre in agguato, scrisse una memoria che vide la luce in forma anonima[4] e che fu prontamente tradotta in spagnolo[5]. La sostanza delle tesi del Canosa sono ironicamente riassunte nel seguente periodo:
Volete voi a Napoli voti per il Bey di Algeri? Datemi tempo di fare un viaggio in Africa, ed indi in Napoli. Spargerò colà tra le anime vili un poco di oro; farò comprendere essere il Bey di Algeri destinato Re di Napoli; prometterò onori, ricompense, e vi porterò in seguito quante firme bramate in di lui favore, unitamente a quegli elogi, che competerebbero appena ad Alfredo Re d’Inghilterra[6]. Successivamente pubblicò, sempre in forma anonima, un secondo opuscolo[7] sullo stesso argomento[8].
Haller non si lascia sfuggire il carattere antireligioso degli ambienti liberali spagnoli, il loro fanatismo anti ecclesiastico e lo spirito di rivolta che li animava. Fenomeni che culminarono nel Pronunciamento militare di Cadice (1820). Haller aveva iniziato a scrivere il pamphlet sulla cosiddetta Costituzione Spagnola, nel 1814. L’annullamento della Costituzione rappresentò per l’intellettuale bernese la fine della attrattiva della novità. Riprese a scrivere il pamphlet quando il Re fu costretto a promulgare la costituzione spagnola. Volle confutare e controbattere le tesi che avevano portato la rivoluzione in Spagna ed affermò:
“Ma in oggi, ch’è stato costretto il Re (per circostanze non ancora esattamente note) di erigerla in legge, e che la sua realizzazione si spinge innanzi con grande zelo, non mi è parsa cosa inutile di riprendere il filo di quella produzione, di adattarla ai tempi d’adesso, e finirla con alcune osservazioni sopra le conseguenze presenti e future, sopra le azioni rimproverate e rimproverabili del Re Ferdinando, sopra i soli veri mezzi coi quali si può combattere e vincere la rivoluzione, ed in conseguenza rimettere l’ordine sociale e la quiete dell’Europa”[9].
Un ulteriore intellettuale che non possiamo dimenticare fu Paolo Vergani (Milano 1750 – Pesaro 1821). Esperto di diritto canonico, divenne un prelato molto apprezzato. Nel 1780 è a Roma come canonico della Chiesa di San Giovanni in Laterano. Il pontefice Pio VI lo volle nella cerchia dei più fidati collaboratori in campo economico. E lo affiancò al suo tesoriere, il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara assieme a Giovanni Cristiano de Miller. Quando quest’ultimo fu nominato dal Ruffo ispettore generale delle Finanze, il Vergani divenne suo coadiutore. Successivamente, nel 1789, Vergani divenne ispettore dell’Agricoltura e delle Arti e assessore generale delle Finanze e del Commercio, divenendo uno dei più fidati collaboratori di Ruffo. Fu molto vicino ai gesuiti spagnoli espulsi dalla loro patria e ciò facilitò la sua conoscenza dei problemi economici spagnoli. Durante il periodo rivoluzionario della Repubblica Romana (1798) fu protetto dal cardinale Giuseppe Doria che lo avvicinò alle idee del tradizionalismo politico. Nel 1800 è a Venezia dove pubblica in forma anonima, ma la paternità gli fu subito attribuita, il saggio “La democrazia combattuta coll’esperienza di tutti i secoli” presso l’editore Giacomo Storti. In questo saggio il Vergani contesta le violente guerre civili scoppiate col giacobinismo e sostiene il primato della forma di governo monarchico. Nei primi anni del nuovo secolo pubblicò alcuni saggi di natura economica. Si trasferì in Francia e dopo la caduta di Napoleone, scrisse un saggio per denunciare le persecuzioni subite dalla Chiesa[10]. Nello stesso anno diede alle stampe un saggio di natura politica[11] per sostenere che il Re Enrico IV fu un vero e proprio modello ideale della Restaurazione. Ritornò a Genova e pubblicò un “Discorso storico-politico sull’autorità del romano pontefice”[12] per sostenere che
“Una delle massime del nuovo diritto Pubblico nato nei Paesi eterodossi è, che l’Autorità del Romano Pontefice non saprebbe concigliarsi colla unità politica del governo temporale de’ Principi, ch’essa è inseparabile dal grande assurdo che i politici chiamano lo Stato nello Stato e che cagiona ogni sorta di disordini ne’ paesi, ove esiste questa doppia Autorità”[13].
Nel 1816 pubblicò il saggio Le idee liberali ultimo rifugio dei nemici della religione e del trono[14], nel quale afferma che per i loro fautori, le idee liberali sono il risultato del progresso dei lumi[15]. Coloro che non adottano questi principii sono, ai loro occhi, estranei alla logica della nuova cultura e della nuova civiltà. Quando verso la metà del secolo XVIII i filosofi incominciarono a diffondere queste idee fecero l’elogio della nuova sapienza, di cui si gloriavano di essere gli inventori e alla quale diedero impunemente il nome di filosofia. Essi innalzarono alle stelle il secolo decimottavo perché aveva avuto il vanto di portare la ragione ad un così alto grado di considerazione e chiamarono automaticamente quel secolo illuminato, o secolo della filosofia. Le persone superficiali, frivole e dissipate, le quali vivevano nel gran Mondo, e che ambivano a figurarvi, reprimevano tutte a mostrarsi iniziate in questo nuovo genere di sapere, che vedevano salito a tanto onore, e vi riuscivano con poca fatica; bastava, ch’elleno mostrassero del disprezzo per tutte le massime, e tutte le istituzioni, che per l’addietro si erano sempre venerate come il fondamento dell’ordine, e del bene della società[16]. L’autore, nel proseguimento del saggio, esalta la Monarchia pura.
“Aristotele avea sostenuto nell’opera stessa, che la monarchia era il più antico di tutti i governi; né certamente avrebbe portata una tale opinione, se i primi Re fossero stati costituzionali, vale a dire, tali, che secondo il suo sentimento, non meritavano punto il nome di Re”[17].
L’autore prosegue la confutazione dell’errore liberale sostenendo che quando il cosiddetto
“Regime Costituzionale fu introdotto in Francia al principio stesso della Rivoluzione nel 1789, i filosofi esultarono nel vedere finalmente realizzata quella specie di governo che per tanti anni avevano teorizzato, sostenendo che era il migliore, il più perfetto e andavano ripetendo sempre che una tale nazione sarebbe stata il modello della massima felicità che si poteva godere sulla faccia della terra. Si; ma il fatto non corrisponde punto a queste belle promesse”[18].
E prosegue affermando che nel Regime Costituzionale i filosofi novatori avevano affermato che le leggi sono sempre giuste ed imparziali essendo il risultato della volontà generale di tutti i cittadini ed espressa attraverso i differenti deputati della nazione uniti insieme nell’assemblea. Ma, stabilendo questo criterio, i filosofi hanno fatto finta di non accorgersi che i deputati, una volta eletti, non consultano più, d’ordinario, gli autentici interessi della nazione, ma unicamente i loro particolari servizi. Che è ciò che si è verificato con la Rivoluzione Francese[19]. Conclude il Vergani:
“I deputati dell’Assemblea nazionale non avevano certamente alcun diritto di spogliare il Monarca della principale prerogativa della Sovrana Autorità trasportando alla nazione, ossia all’assemblea stessa il potere legislativo, come essi fecero colla nuova costituzione del Regno. Una tale costituzione si dovea riguardare unicamente come l’effetto della violenza, e dell’usurpazione, quando anche si fosse potuto sostenere come vera, e sussistente l’assurda teoria della sovranità del popolo, e in conseguenza si fosse voluto accordare alla nazione il preteso diritto originario, e imprescrittibile di fare le leggi, che giudicasse più vantaggiosa a se stessa: e la ragione si è perché i deputati dell’assemblea non erano a ciò autorizzati”[20].
Un grande avvenimento internazionale quale fu il Congresso di Vienna, rappresenta un punto sul quale l’atteggiamento della pubblicistica del tradizionalismo politico è stato poco studiata. Nel 1818 ci provò Mons. Paolo Vergani con un’opera in due volumi dal titolo “Analisi ragionata del Congresso di Vienna”[21]. L’opera del Vergani si distingue per una implicita difesa del nuovo ordine internazionale scaturito in quella che divenne l’età della Restaurazione. Ma lo scopo principale dell’opera fu la confutazione di un altro saggio apparso in Francia nel 1815 sullo stesso argomento e scritto dall’abate De Pradt[22], già ambasciatore di Napoleone. Il Vergani era convinto che il monsignore francese aveva scritto l’opera per screditare le risultanze del Congresso. Scrive Mons. Vergani:
“Ma l’opera sul Congresso di Vienna porta in fronte il nome dell’autore, e questi è un Arcivescovo, è un uomo, che ha goduto per molti anni della confidenza di Napoleone, e che da lui è stato impiegato nelle prime cariche della diplomazia e in tempi assai difficili; è uno scrittore infine che ha pubblicate parecchie altre opere. Tutte queste circostanze dando della considerazione alla persona dell’autore, potevano darla eziandio all’opera, e renderla quindi assai pericolosa; perciò ho creduto che meritasse di esser confutata”[23].
Un argomento che Monsignor De Pradt difende nella sua opera riguarda le Colonie Spagnole d’America che vorrebbe affrancare dalla madre patria. La sua posizione è fortemente antispagnola e si sposa con le tesi inglesi avanzate durante il congresso di Vienna sullo stesso argomento. Mons. De Pradt scrive:
“L’Espagnol s’est montré en Amérique qu’il a été en Europe, constant et féroce, quoique très-souvent généreux, inflexible dans son opinion, invariable dans son parti, également inébranlable et inexorable. Pour l’Espagnol, le sang, les ruines ne sont rien: c’est faire triompher son parti qui est tout. Ainsi, dans les provinces de Caracas et de Vénézuéla, les mêmes villes ont été prises, repriseset saccagées dix fois: Monte-Vidéo a résisté jusqu’au dernier jour; Buénos-Ayres s’est montré infatigable dans la poursuite de l’indépendance. Ce caractère espagnol, toujours le même dans des climats et dans des circostances si différentes, est vraiment bien remarquable”[24].
Paolo Vergani interviene sull’argomento chiarendo preliminarmente che il Congresso di Vienna fu convocato per rimediare ai disordini che la rivoluzione, e soprattutto il governo di Bonaparte avevano introdotto nel sistema politico dell’Europa[25]. Poiché Mons. De Pradt intende indicare che l’insurrezione di quel vasto continente è intimamente collegata con i grandi interessi dell’Europa, lo segue su questa strada per confutarlo. Per Vergani vale l’antico detto: quello che ardentemente si desidera, facilmente si crede e traducendo l’antico detto, rassicura i benpensanti
“veggendo egli che l’insorgenza non è stata mai generale in tutta l’estensione dell’America Spagnola, veggendo che sebbene parziale si è andata ogni giorno scemando, dovrà conchiudere, che la contrarietà verso la Spagna non è generale in quel vasto continente, perciò non dispererà di vederla di nuovo rientrare nel dovere”[26].
[1] Ibidem, pagg. 106 – 108
[2] Walter Maturi ha voluto trovare nel Montesquieu il suggeritore del pensiero canosiano attraverso l’opera “lo spirito delle leggi” che fu tradotta a Napoli al tempo del Canosa.
[3] Vedi A. Canosa, L’utilità della Monarchia nello stato civile; Epistola ovvero riflessioni critiche sull’opera dell’avvocato fiscale sig. D. Nicola Vivenzio intorno al servizio militare dei baroni in tempo di guerra.
[4] Copia che un amico da Vienna scrive ad un altro in Napoli, s.l., novembre 1814
[5] Ibidem
[6] Riportato in W. Maturi, op. cit., pag. 21
[7] Seconda lettera che un amico da Vienna scrive ad un altro in Napoli.
[8] M. H. Weil nell’opera J. Murat Roi de Naples. La dernière année de régne, vol. I, Oaris 1909, alla pagina XXVII cita l’opuscolo ritenendolo anonimo. Walter Maturi rinvenne, presso l’archivio di Stato di Napoli una lettera inedita del Canosa al Medici datata 26 aprile 1815 con gli opuscoli annessi e la rivendicazione della paternità al Canosa stesso. Cfr. W. Maturi, Il Congresso di Vienna e la restaurazione dei Borboni a Napoli, in Rivista Storica Italiana, 1938, fascicolo IV, pag. 21, n.
[9] Ibidem, pagg. 1 – 2
[10] Essai historique sur la dernière persécution de l’Église, Paris, A. Égron, 1814, pagg. 96
[11] Discussion historique sur un point intéressant de la vie de Henri IV, Paris, A. Égron, 1814, pagg. 54
[12] Genova, Stamperia Pagano, 1815, pagg. 99
[13] Ibidem, pagg. 3 – 4
[14] Genova, Stamperia Pagano, 1816, pagg. 247
[15] L’opera fu ristampata a Torino nel 1821 e a Napoli nel 1850
[16] Ibidem, pag. 2
[17] Ibidem
[18] Ibidem, pag. 23
[19] Ibidem
[20] Ibidem, pag 24
[21] Genova, Stamperia Pagano, 1818, vol. I, pagg. XII – 167; vol. II, pagg. 198
[22] M. De Pradt, Du Congrès de Vienne Paris chez Deterville & Delaunay, 1815, Tome I, pagg. XIX – 274; Tome II, pagg. 267
[23] Ibidem, vol. I, pag. 32
[24] Ibidem, vol. II, pagg. 165 -166
[25] Ibidem, vol. II, pag. 4
[26] P. Vergani, op. cit., vol. II, pag. 20
fine
Francesco Maurizio Di Giovine