Alta Terra di Lavoro

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Vittorio Imbriani, chi è costui?

Posted by on Ago 2, 2017

Vittorio Imbriani, chi è costui?

Sappiamo che, alla morte, Vittorio Imbriani (1840-1886) lasciò, incompiuti, parecchi lavori narrativi e di critica. La sua immensa biblioteca ed il suo archivio di sorprendente vastità di interessi intellettuali rimasero senza inventario e senza destinazione alcuna, finché i libri furono messi, dalla moglie Gigia Rosnati, a disposizione della Biblioteca Universitaria di Napoli.

Benedetto Croce, Gino Doria e Nunzio Coppola hanno, nel corso del tempo, proposto ristampe dei suoi libri, ma manca ancora la pubblicazione delle opere inedite, sopravvissute presso biblioteche e in archivi privati. Manca chi, sull’esempio di Dora Marra per i libri di Benedetto Croce, vada a leggere le minuziose schede critiche di Imbriani sugli autori da lui più frequentati e a commentarle organicamente. Del fondatore (assieme a Bertrando Spaventa e a Francesco Fiorentino) nel “Giornale napoletano di filosofia e lettere”, occorre anche ripubblicare “Canti del popolo meridionale” (1871-72), il “Libro delle preghiere muliebri” (1881) e “Dio ne scampi dagli Orsenigo” (1876), aspra satira della società aristocratica italiana, rappresentata con ironia corrosiva. Vittorio Imbriani appare oggi, ad un attento lettore, coerente dalla prima all’ultima pagina che scrisse, più che per convinzioni, per l’aspra vivacità del suo temperamento. Con i suoi romanzi, con i suoi saggi, con i suoi articoli, non meno con l’epistolario, ci ha lasciato la cruda storia dei suoi risentimenti e dei suoi variabili umori.L’opera di Imbriani è un documento autobiografico, spesso nella maniera più grezza. Imbriani è uno scrittore che porta dappertutto il segno del suo carattere. D’altra parte, le ire e gli sfoghi di Imbriani erano una cosa serissima: si trattò di reazioni a persone a lui vicine o ad avvenimenti del suo tempo, tanto che dai suoi romanzi si può cavare un quadro non solo aneddotico e pittoresco dell’Italia di allora. Di Imbriani, l’editore Laterza stampò, nel 1937, una raccolta di cronache d’arte e di prose narrative a cura di Gino Doria e vi si svelava un non superficiale intenditore di pittura, quasi un precursore della nostra critica contemporanea: quel che accadde, del resto, a molti di quei cronisti d’arte, che, come il Netti, furono vicini ai pittori dell’impressionismo napoletano. Nello stesso anno Imbriani pubblicò un’altra raccolta discritti: “Sette milioni rubati” o “La Croce Sabauda”, a cura di N. Coppola, per i tipi della Laterza di Bari. Coppola si confessa ricercatore delle carte di Imbriani. Egli, per primo, scartava che di Imbriani potesse ragionarsi oggi per qualche attualità. Interessa ormai la storia della letteratura: poco riguarda la cronaca di quella contemporanea. Imbriani fu un episodio  del suo tempo e resta ancora un episodio: “Resta un isolato anche rispetto agli uomini della vecchia Destra, che egli amava ed esaltava, quali per es. un Silvio Spaventa, ma forniti di un più acuto senso realistico della vita nazionale, e perciò più veramente uomini politici”. Imbriani non era uno scrittore politico: era forse un buon patriota, o almeno uno che sembra amare il proprio Paese facendo il moralista del tempo in cui gli accadde di vivere. L’immaginazione non gliela accendevano che i fatti dell’Italia di allora. I suoi racconti sono tutti come parabole. In Imbriani ci fu, come si sa, una polemica antimanzoniana, ma, in fondo, oggi i termini di quella sua disputa con il Manzoni si confondono. Appare chiaro quale diversità di attitudini li dividesse: diversità che impedivano ad Imbriani di comprendere, pur da lontano, la posizione del romanziere e poeta lombardo. La posizione di Imbriani prosatore resta oratoria. Egli è lo scrittore napoletano che se la prese con i piemontesi e con Depretis e l’odiata Sinistra, per tacere dei giudizi offensivi su personaggi emblematici della storia patria, a cominciare dal Mazzini.. A proposito, veramente interessanti le lettere giovanili che Nunzio Coppola aggiunse alla raccolta come saggio di un epistolario. Non esiste una polemica tra il Manzoni e l’Imbriani. Ormai non si vede che una ribellione letteraria scarsamente importante. Imbriani volta le spalle al Manzoni come avrebbe voltato le spalle a qualsiasi altro poeta del suo tempo. Gli resta un rispetto verso il De Sanctis, di scolaro più che di scrittore. Stando così le cose, la letteratura di Imbriani può oggi interessarci o come si è detto avanti, perché specchio di certi fatti e idee del suo tempo, o perché storia di un animo inquieto fino all’esasperazione. “Sette milioni rubati” o “La Croce Sabauda” è lo scritto di maggior valore nella raccolta del dicembre 1937. L’opera fa oggi venir in mente il romanzo giallo, ma Imbriani non è nemmeno un precursore del “giallo”. Coppola giustamente mette in rilievo certa distanza fra la prima e la seconda parte del racconto. Veramente si deve tener conto che la prima parte fu dall’autore scritta e riscritta, mentre della seconda non si ha che l’abbozzo, troncato dalla morte, avvenuta a soli 46 anni. Eppur ci pare che, se anche della prima abbiamo una versione più elaborata, è nella seconda che si trova la coerenza sentimentale di Imbriani. Nella prima, si narra come il protagonista Giannattasio ricevesse l’improvvisa visita di un amico, che, partendo per Palermo, gli affida una valigia in deposito. Partito l’amico, i giornali pubblicano la notizia di un assassinio sulla ferrovia Roma-Napoli:  due impiegati di banca sono stati uccisi e derubati di una valigetta contenente sette milioni di lire. Al Giannattasio viene un dubbio… Intanto, la polizia afferma che il ladro è morto. Giannattasio non ha più dubbi. Apre la valigia e vi trova i milioni. Sciolto un nodo morale, decide di tenerseli (l’amico, partendo, lo aveva istituito erede, qualora non tornasse più, impiegandoli a grandi opere. Questa è la prima parte. Giannattasio fa grandi cose. Diviene il ministro salvatore della nazione. Giannattasio, fatta la sua “Città del Sole”, è tormentato dal dubbio se deve lasciare ai figli il denaro guadagnato con i sette milioni infami. Va a consigliarsi con il Papa, che lo spinge a confessare pubblicamente. Così, finché si desta. E’ stato un sogno. L’amico torna. Nella valigia aveva cose di poco conto. La favola moralistica di Imbriani sta, come si vede, chiusa in termini bonariamente narrativi. Imbriani era di quei narratori, che, il raccontare premendo loro come mezzo felice per l’esposizione di alcune idee, finiscono con il ricorrere ai modi romanzeschi più usati. Esiste una retorica narrativa e questi se ne impadroniscono ingenuamente. Così la prima parte di “Sette milioni rubati” è un racconto scritto con arte, all’apparenza consumata. Un lettore attento, tuttavia, come non si avvedrà che si tratta solo di uno sforzo? Il narratore pare che freme i suoi impeti nella calma del racconto. Pare che si finga un umile narratore, mentre ben altro gli urge dentro. Per lui narrare è una finzione, mentre per i romanzieri fu sempre un atto  di fede. I due amici, Giannattasio e Bignami, si incontrano. “Oh che  gioia per entrambi! riabbracciarsi! riparlare di que’ be’ tempi! ricordare gli antichi scappucci e le antiche speranze! Che festa che fecero! che solenni  rimpatriate! (per avvalermi di un vocabolo napoletano, che non ha riscontro esatto nella lingua aulica!). Modi narrativi da bonario racconto, ma è chiaro come la scelta dei vocaboli  non la si debba ad antimanzonianismo. C’è l’occhio preciso, non del narratore, ma piuttosto dell’oratore, che conosce a menadito quali sono i mezzi cui gli giova ricorrere. Oppure, il suo impeto oratorio ha ragione della finzione narrativa: “Già, in Italia nostra cara, la feccia emerge sempre e trionfa”. Non mancano gli insulti contro qualcuno, magari contro lo storico e uomo politico Pasquale Villari, che era di Imbriani quasi un bersaglio preferito. In fondo, Imbriani era più che abile nel notare gli umani sviluppi psicologici, nel mostrarsi sensibile verso costumi e avvenimenti. “Sette milioni rubati” resta un romanzo incompiuto, ma certo, anche dall’ultima elaborazione, non poteva venir fuori che una parola di una moralità aspra e risentita, chiusa dentro termini bonari, che venivano presi dalla tranquilla narrativa del secolo. I risentimenti aspri uscivano, di volta in volta, dall’animo dell’autore, che si avvaleva di uno stile espressionisticamente violento, fitto di immagini, di paradossi, di bizzarrie, di deformazioni, di giochi di parole e di contorsioni linguistiche, servendosi di forme auliche e di forme popolari, di latinismi, di volgarismi, di arcaismi e di neologismi (l’Imbriani ebbe simpatia per il barocco e scrisse sul Basile in un’epoca poco tenera per quella civiltà letteraria).

 

Alfredo Saccoccio

 

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